Il sonetto si inserisce nel dibattito sulla nobiltà che animava la corte di Federico II, dove si confrontavano diverse concezioni: quella legata al lignaggio, quella legata alla ricchezza e quella, promossa da Federico stesso, che valorizzava le qualità individuali e il merito. Il testo sottolinea come la vera nobiltà non sia un dato di nascita, ma una conquista morale e intellettuale. Le qualità elencate nel sonetto (misura, provvidenza, meritanza, cortesia) sono tutte virtù che richiedono impegno e disciplina per essere coltivate. L’esempio negativo dell’uomo ricco e potente che decade serve da monito contro la superbia e l’illusione di onnipotenza. Il sonetto invita alla prudenza, all’umiltà e alla consapevolezza che la fortuna può cambiare directione:
“Unde non salti troppo, homo ch’è sagio” (vv. 12).
Il linguaggio è semplice e diretto, ma efficace nell’esprimere i concetti chiave. L’uso di termini come “vile” e “valente” sottolinea il contrasto tra chi possiede solo ricchezza e chi, invece, ha saputo coltivare le virtù che rendono l’uomo veramente nobile. “Misura, providentia e meritanza” è un’interessante testimonianza del pensiero di Federico II sulla nobiltà e sulla ricchezza. Il testo, pur nella sua brevità, offre spunti di riflessione ancora attuali sull’importanza delle qualità morali e intellettuali rispetto ai privilegi di nascita e allaMaterial possessions.

Nel suo commento alla canzone “Tre donne intorno al cor mi stanno”, Dante Alighieri riporta una definizione di “gentilezza” attribuita a Federico II di Svevia: “antica possession d’avere con reggimenti belli” (Cv 4, canz. 3, 21-24). Tale definizione, che Dante non riconosce come aristotelica e che anzi critica aspramente (Cv 4.3.6; 4.10.6), sarebbe stata pronunciata dall’imperatore in risposta a una domanda sulla natura della gentilezza. La fonte di questa definizione potrebbe essere una lettera di Federico II ai senatori romani, in cui si afferma che la generositas proavorum trasmette la nobilitas (Corti, Fonti 65). In alternativa, Dante potrebbe aver attribuito all’imperatore una massima in voga alla sua corte, frutto delle frequenti dispute filosofiche che vi si svolgevano (Consoli, in ED IV 59, s.v. nobiltà). Tuttavia, la polemica dantesca non rende piena giustizia al pensiero di Federico II, che appare più articolato e costituisce una sorta di compromesso tra le due posizioni antitetiche presentate nel quarto trattato del Convivio (Sanguineti, Federico II 421).
Nel sonetto, qui preso in esame, Federico II fornisce una definizione di nobiltà diversa da quella riportata da Dante nel Convivio e conciliabile con quella della Monarchia. Pur non negando esplicitamente il valore della nobiltà di sangue, l’imperatore sottolinea come essa non possa sussistere senza misura, providentia e meritanza, senza una perordinata costumanza e una costante cortesia di comportamento. In altre parole, né la nobiltà né la ricchezza possono rendere “valente” chi è “vile”.
La questione era dibattuta alla Magna Curia e all’università di Napoli, come testimonia una lettera anonima indirizzata a Pietro della Vigna e a Taddeo di Sessa, che riporta una disputa sulla nobiltà di nascita e quella d’animo (Huillard-Bréholles, Pierre de la Vigne 319). È possibile che Dante abbia considerato erroneamente di Federico II un componimento poetico che, in contrasto con l’opinione dell’imperatore, difendeva un’idea di nobiltà legata alla stirpe. L’impiego del sonetto nelle dispute filosofiche trova analogie nel sonetto di re Enzo sulla fortuna (PSS 20.4), con il quale condivide rime, rimanti, dittologie sinonimiche e il concetto della sorte altalenante (Monteverdi, Federico II 53). L’attribuzione del sonetto a Federico II, sebbene presente in un unico manoscritto, sarebbe avvalorata dalla sua somiglianza con il sonetto di re Enzo, nonché dal legame tra il discorso sulla variabilità della sorte e il concetto di nobiltà d’animo, intesa come capacità di resistere alle avversità.
Articolo di: FRANCESCO RIZZO